7 gennaio 2010

Point Break

Piove. Sono le sei e mezza del mattino e piove sottile, quasi abrasiva. E dire che ero venuto qui per rincorrere il sole.
Spremo un'arancia e ci butto sopra un po' di muesli. Un pugno, due pugni, facciamo un etto che sennò dopo svengo in acqua. Mangio fuori, vicino alla piscina, sui tavoli di legno. Meglio abituarsi subito all'acqua che ti batte sul viso, alla brezza da ponente che gonfia l'oceano.
Mi metto il costume, il cappuccio della felpa in testa, un asciugamano e una banana nello zaino. La tavola mi batte già sulle costole mentre cammino verso la spiaggia. Sono le sue costole ormai, il suo petto, le sue ginocchia e le reclama ogni volta che mi avvicino all'oceano. Lo capisco mentre attraverso il fiume che oggi la marea è alta, perché corre all'indietro e spinge la sabbia sempre più a fondo.
Poi si apre la scena e ho centottanta gradi di onnipotenza davanti ai miei occhi. Qualcuno è già in acqua, paziente. La prossima onda sarà migliore. Non si surfa contro l'oceano. Si surfa su sua concessione dopo averlo accarezzato, sedotto.
Metto la rashie, una magliettina di licra che mi protegge dal freddo. I capelli sono già bagnati per le gocce che mi cadono in testa da mezzora. Non trovo una ragione valida per lasciare il resto del corpo asciutto a contemplare lo spettacolo. Mi corico sulla tavola e le sussurro che stavolta cercherò di proteggerla, di non abbandonarla ad ogni onda un pochino più potente. Sono le ultime parole dolci, poi verranno solo imprecazioni. Nuoto, con tutta la mia forza, contro quelli che mio nonno chiamava cavalloni. Non andare in acqua che ci sono i cavalloni. Scusa, nonno, ma non ho mai resistito alle dimostrazioni di onnipotenza. Preferisco buttarmici dentro che stare a guardare. Nuoto, mentre la schiuma mi ributta indietro e bevo l'acqua bianca. Cado, mi rimetto sulla tavola e vedo l'onda successiva che si rompe proprio sopra di me. Succede sempre. Io nuoto, e loro mi ributtano indietro.

Io non so prendere le onde, non ancora. Ma penso di aver capito cosa vuol dire surfare. Lo vedo negli occhi degli altri surfisti quando arrivo nella line up e mi siedo ad aspettare l'onda buona, dieci minuti dopo aver lasciato la riva, già esausto. Perché anche nei loro occhi, sotto una pioggia che non smetterà mai, vedo quello che c'è nei miei. La consapevolezza. Sanno che non c'è niente di più bello al mondo di un mare cupo che sfuma verso l'alto, si confonde, e diventa tutt'uno col cielo in tempesta, là dove le nuvole si fanno acqua. E' il nostro orizzonte. Lo vediamo così perché abbiamo l'acqua nello sguardo. Quella dell'oceano o quella della pioggia, non lo so. Ma stare lì seduto, col frastuono delle onde che si rompono da un lato, e il frinire incessante di migliaia di cicale dall'altro, è quello che io chiamo pace.

2 commenti:

Unknown ha detto...

Bellissimo pezzo, molto intenso. Odio con tutte le mie forze i blog, e non so nemmeno come funzionano, ma non potevo esimermi, foss'anche per una sola volta, di frequentare il tuo e di lasciarci un commento.
Sto meglio, e ti ringrazio.

Cobrando Cobrandini ha detto...

Grazie.