30 ottobre 2009

I'm not so fucking special, actually.

Vi ricordate i bigliettini delle medie?
Io credo che poche cose della mia infanzia rimarranno alla mia memoria nitide quanto la struttura di un bigliettino delle medie. Tutti quei convenevoli, quegli aggettivi dolciastri. Poi l'anacoluto, quasi doveroso per chi scriveva, letto con moderato compiacimento dal destinatario. Abbiamo un codice, pensavo ogni volta. Un codice abominevole, me è pur sempre qualcosa che condividiamo.

Ieri mi sono alzato e il padre di Hikari era morto. Lei doveva partire per Alice Springs proprio ieri, e là incontrare i suoi genitori ma suo padre è morto prima di poterla rivedere. E io non avevo un codice per dirle che mi dispiaceva. Non avevo un codice per dirle alcunché, in realtà. Avrei voluto abbracciarla ma mi sembrava d'invadere il suo dolore privato.
Perdere un genitore è qualcosa di cui non so nulla e quando non so nulla mi viene spontaneo stare in silenzio. Ci siamo guardati per qualche istante, afoni dei nostri pensieri.
E' partita ieri e la sua schiena mentre saliva sull'autobus che l'avrebbe portata all'aeroporto profumava d'addio come poche altre cose al mondo.

Ultimamente mi capita di leggere parecchio. Soprattutto e-mail da gente che non conosco: I regret to advise that on this occasion we will not be progressing with your application. Sei bravo, hai buone esperienze, il tuo inglese sembra devastante ma per stavolta prendiamo un altro. Non c'è molto da fare, se non continuare a provare.

Leggo anche molte e-mail di persone che conosco da tempo. E' sorprendente accorgersi che a ventimila chilometri da casa puoi ancora scoprire qualcosa di coloro a cui vuoi bene. Forse svelare se stessi è più facile quando non sei costretto a incrociare lo sguardo di chi ti ascolta non appena hai smesso di parlare.

22 ottobre 2009

一期一会

I giorni cominciano a passare in fretta. Tra un po' dovrò contare le settimane di permanenza in Australia, forse i mesi. E' un'abitudine che avevo anche da bambino, in occasione delle vacanze più durature, e confesso che mi ha sempre messo addosso una malinconia notevole.

All'inizio ogni giorno ha un suo colore, arrivi a sera e ti viene da fare l'elenco delle facce strane che hai visto, delle gocce di pioggia che ti sono cadute in testa. Poi le facce cominciano a sembrare un po' più ordinarie, le gocce di pioggia sempre meno frequenti. C'è una patina di anonimato sui giorni appena conclusi quando fissi il calendario. E ti sorprendi sempre meno di ciò che ti sta intorno, anche se qui è quasi impossibile trovare un anguria con i semi e c'è gente che fa bodysurfing lanciandosi dagli scoglia con onde di due metri.
Capisci che questa è un po' casa tua quando ti sporgi dal marciapiede e guardi prima a destra per essere sicuro che non arrivino macchine.

Mi hanno detto che questo blog ha il sapore agrodolce della nostalgia. Non c'è niente di più vero, e non ho mai fatto niente per nasconderlo. Ma ci sono un sacco di momenti lieti nelle mie giornate.
Il caso ha voluto che capitassi in casa con ragazzi che hanno un assoluto bisogno di compagnia e non sarò certo io a negar loro qualche brano del mio inglese finto disinvolto. Ognuno ha il suo modo di chiedere attenzione: i silenzi intensi dei due ungheresi, la smodata vitalità di Saman, gli scherzetti quasi puerili di Hikari. E tutti sembrano dirti: ok, siamo a migliaia di chilometri da dove siamo cresciuti, ma scommetto che una serata insieme può strappare un sorriso a qualunque latitudine.

Lo so, alla fine non racconto mai nulla di quello che mi succede. Spero che lo si legga tra le righe.
Non c'è niente di anonimo se si ascoltano le parole di chi ci sta intorno.


Ichi-go ichi-e. Un momento, un incontro.

16 ottobre 2009

Saman

Ho un bug di sistema. Non riesco a descrivere le persone che incontro con la cura che meriterebbero. E' sempre stato così. Detesto descrivere almeno quanto detesto leggere descrizioni, tanto che sovente mi capita di saltare intere pagine di libri, arrivare alla fine della storia e rendermi conto che non ci ho capito un cazzo. Di norma biasimo l'autore in questi casi.
Anyway, credo sia auspicabile imporsi, più che concedersi, delle eccezioni nella propria vita. E il ragazzo iraniano con cui condividerò la stanza per qualche tempo fa decisamente al caso mio in questo momento.

In parentesi: sì, ho una casa mia. No, non ho una stanza (tutta) mia. No, non ho controllato da che parte gira l'acqua del cesso: sono sempre troppo impegnato a farmi i complimenti per ciò che ho appena fatto.

Saman mi ha accolto nel suo mondo offrendomi un bicchiere di vino. Chi ti offre un bicchiere di vino prima di conoscere il tuo nome è quasi sempre una persona estremamente gentile, o una persona estremamente depressa. Talvolta capita che sia entrambe le cose.
In un paio d'ore di conversazione ha:
- liquidato Ahmadinejad chiarendo che durante i pasti non riesce a parlarne;
- presentato un doveroso elenco di parolacce italiane che gli sono state insegnate;
- esclamato Oh my God almeno un centinaio di volte;
- istituito l'asse Iran-Italia per una futura missione cucina pulita in cui si cercherà di porre rimedio al lordume prodotto dalle ragazze asiatiche nostre coinquiline;
- notificato che dell'Islam non gli frega nulla, e contestualmente rabboccato il suo calice di vino;
Non posso dire di conoscerlo. Ho solo la sensazione che vivremo bene assieme. Parla un sacco, ed è piuttosto esuberante, anche teatrale nel suo porsi con gli altri. Io di mio sarei riservato e un po' lunatico, ma ho un bisogno disperato di qualcuno che sappia tirarmi su il morale anche con pochi gesti quando mi arriva una botta di nostalgia straight from pianura padana.
Di solito arrivano all'ora di pranzo. Non ho molto da fare e mi connetto. E contemplo un paio d'ore di stasi forumistiche, di finestre MSN senza contatti attivi e di illusorie newsletter che mi fanno sperare di essere nei pensieri notturni di qualcuno, a ventimila chilometri da qui.


Mi piace camminare per Sydney e scoprire sempre qualcosa di nuovo in strade che ho percorso già decine di volte. Mi piace sporgermi dal Pyrmont Bridge e guardare la baia, e vedere che ogni tanto si spegne la luce di un ufficio in un grattacielo. Mi piace mettermi le cuffie e pensare che la gente intorno a me si muova al ritmo che sento io.

12 ottobre 2009

Dove ho lasciato spensieratezza?

Per la prima volta ho guardato il cielo di Sydney e ho dovuto chiudere gli occhi. Sull'asfalto squarci di luce definivano i contorni dei grattacieli. Ed io ci camminavo sopra con le mie scarpe bucate, che ancora profumano della pioggia dei giorni passati. Quasi a dire: è un pezzo che t'inseguo, adesso che ho i piedi al caldo ti prego non te ne andare. Ed evitavo le ombre lunghe di modo da non dover rimettere le mani in tasca per il freddo.

Avevo una casa sabato, poi è scomparsa nel nulla, e oggi ne ho una nuova. Ci entro giovedì.
Dentro c'è praticamente il mondo e l'idea è quello di conquistarlo tutto, come quando ti capita la missione più difficile a Risiko. A dir la verità non ho mai avuto troppa fortuna con i dadi.

Ho visto alcuni tra gli squarci più affascinanti di questa città nel weekend appena trascorso: Opera House, Harbour Bridge e soprattutto i giardini botanici. Please walk on the grass, c'è scritto all'ingresso. Appena arriva un po' di caldo ci torno di corsa e mi tolgo le scarpe. E' tanto che non sento un po' d'erba sotto i piedi.
Tutto questo in compagnia di un amico. Già, ho un amico a Sydney. Sappiamo entrambi quanto coraggio ci vuole a mettere la propria vita in una valigia, quanto sia difficile alzare la testa per guardare negli occhi la propria mamma quando la si saluta all'aeroporto.
A ventimila chilometri da casa un amico sembra ancora più prezioso, specie se non si pensava di averne.

Il grigio è tornato da poco. Non si tiene al guinzaglio un raggio di sole. Ed è solo quando torna il grigio che cominci a rimpiangere l'ombra. Perché l'ombra ti ricorda la spensieratezza di poter camminare con le scarpe asciutte, saltando da un marciapiede all'altro, incurante dei minuti che passano.

10 ottobre 2009

Bagels for breakfast

Va bene, va bene. Devo essere tollerante. Non tutti hanno il senso del pudore e del rispetto che ho io, siamo d'accordo, però stanotte mi pare si sia proprio superata la linea che separa ciò che è decoroso da ciò che non può esserlo ad alcuna latitudine.

Premessa: due giorni fa arriva in stanza questo gruppetto di tedeschi (tre ragazze ed un ragazzo) nel primo pomeriggio. Straight from Europe. Io li avviso: se andate a letto ora poi fate la notte in bianco. Risposta: yes, we know it, only little nap. Ok, parlano un inglese imbarazzante per essere teutonici, ma concediamo loro un pisolino.
Dormono l'intero pomeriggio, stanza nell'oscurità più totale. Io, tornato da un giro per vedere stanze verso le 7 di sera, mi azzardo ad accendere la luce della camera, ma una del gruppo, che sta trafficando con gli zaini, mi mette in mano la sua torcia e mi dice di usare quella because everybody sleeping (con questa espressione: XD). Vi dico solo che al confronto di questa torcia, le lucciole emttono bagliori accecanti. Anyway, va bene così. Tolleranza. La stanza è un delirio. Zaini, cartacce, bottiglie vuote dappertutto. C'è anche puzza di lievito. Ma va bene così. Tolleranza.

Finché non arriva ieri notte. Il gruppetto decide di far serata, visto che è l'ultima qui all'ostello. Invitati dalla crew dello Scary Canary, il locale di fianco all'ostello, prima sembrano titubanti, poi si buttano in quella che posso immaginare sia stata una serata di eccessi. Niente in contrario. Non fosse che alle 3 del mattino vengo svegliato da vociare molesto e illuminazione diffusa. Ipotizzo sia giorno, moderatamente soddisfatto per aver sconfitto il jet lag e aver ronfato per una notte intera senza interruzioni. Accendo il cellulare: 3.12 AM. Ok, sono tornati dalla sbronza, ora vanno a letto. Escono di nuovo. Mi riaddormento. Mezzora dopo ritornano, di nuovo accendono la luce della camera. Il tipo è in condizioni pietose e sbraita senza costrutto con tono gutturale. Lo convincono a mettersi a letto, sopra di me. Continuano le imprecazioni, quasi urla. C'è disperazione nel suo tono. E sdegno nelle mie palpebre socchiuse.

Vorrei sorvolare, ma ho davvero bisogno di dormire. Butto lì un: how about keeping your voice down mate? Detto con garbo, quasi servile.
Risposta: scheisse.
Necessaria un'interpretazione: merda io? Merda la situazione? O merda, sono talmente sbronzo che mi sono cagato nel letto?
Ritengo più probabile la seconda opzione. Getto uno sguardo supplichevole all'amica che dorme nel letto accanto al mio. Lei lo convince a far silenzio. Mi addormento di nuovo verso le 4 e mezza.


Al mattino nemmeno una parola di scuse. Sarò fatto strano io, ma mi sembrava doverosa. Faccio colazione con bagel tostato e una banana, e passa tutto in secondo piano.

8 ottobre 2009

Calligrafia di una nuvola

C'è un vento letale. Non vedo nemmeno le nuvole passare tanto vanno in fretta, e le mie mani tremano a tal punto per il freddo che fatico a rileggere il mio tratto.

Ho visto un po' di Sydney oggi. A pranzo con un amico italiano, Rod, che è qui dai sette mesi. Lavora dalle parti di Pyrmont, un colle che si affaccia sulla baia e l'Harbour Bridge. Sul versante opposto c'è downtown con i suoi grattacieli in vetro e mattoni, uno stralcio che mi ha ricordato Vancover per il contrasto quasi maniacale tra i doni della natura e i mostri, pur tremendamente fascinosi, creati dall'uomo.
Ho mangiato una pumpkin soup con pane tostato. La zuppa era meno cremosa di quanto sperassi, ma era da un po' che non mangiavo qualcosa di così lineare, semplice. Sì, ne avevo un disperato bisogno. E sì ho ancor più bisogno del mio amato riso. Ho voglia di cucinare tranquillamente per me stesso come sempre. Stay vegan.

Ora sono ad Hyde Park, che è una miniatura del suo cugino londinese. Sembra posto ideale per buttare giù due righe malinconiche e fermarsi a contemplare questa città che ho finora consapevolmente ignorato. E' il classico posto in cui devo tornare ogni tanto, da solo, con un quaderno nello zaino.

Le nuvole volano. Letteralmente.
E mi fa quasi paura guardarle perché mi ricordano il mio tratto incerto. Mi ricordano che forse avevo dimenticato come si scrive.

The Sun Chaser

Al solito, le prime ore in un posto mi fan venire voglia di tornare a casa. Lo so, è abbastanza prematura come presa di posizione, però un paio di cose ieri giravano davvero male. Alle 9 ero già all'ostello (X Base, quello con più hype di tutta Sydney, per intenderci), sventolante la mia prenotazione sotto il naso della tizia al front desk.
Fino alle 10 sicuramente il tuo letto non è libero. Ed è un miracolo se ti cambiano le lenzuola entro le 2.
Oh, di hype ne ha parecchio, con le porte a vetri, i backpackers dentro tutti col portatile sulle ginocchia e la minimal in sottofondo. Però ecco, io di solito dormo sui materassi, non sull'hype. Soprattutto se alle spalle ho 24 ore di transoceanica da mettere a tacere.

Vorrei scrivere un messaggio a tutti quelli che conosco e sentire le vibrazione delle loro risposte, ma il credito sta per terminare. Internet? Costa un dollaro ogni quarto d'ora di connessione wi-fi qui all'ostello. Pare vagamente eccessivo. Rileggo i vecchi sms che mi tengono compagnia.

Fa freddo: undici gradi. Raccontavo in giro che andavo in Australia anche per seguire il sole. Il cielo è limpido ma con una felpa e un maglione non credo di resistere più di due settimane. Il girasole che ho tatuato sul cuore mi duole parecchio. Un girasole non sa nemmeno da che parte girarsi se il suo sole sta a ventimila chilometri di distanza.


Ho voglia di tornare a casa, ma tanto non lo faccio. La mia vita oggi pesa 33 chili, bagaglio a mano incluso, e so che devo portarmela in giro ancora per qualche tempo. Poi esausta mi dirà che è arrivato il momento di tornare a casa. Non per sempre, non credo, ma almeno sarà di nuovo una vita rischiarata dal sole più abbacinante che un girasole abbia mai visto.

5 ottobre 2009

And now for something completely similar

Comincio un blog, come qualche anno fa. L'ocasione? Un viaggio a qualche migliaio di chilometri da qui.
Scrvierò le solite quattro boiate, qualche storiella curiosa, stralci di Australia o degli altri posti in cui capiterò più o meno volontariamente.

Non è un addio.