21 aprile 2010

The Decline

Raga il viaggio quieto è finito per cui direi di chiudere qui l'esperienza blog.
L'idea è comunque quella di trarne una sorta di libro. Vi tengo aggiornati.

11 aprile 2010

Oba-chan

Ok, Giappone. In sintesi: un mese di vita chinato in avanti. Dovunque mi trovassi c'era il rischio di sbattere la testa. Un lampadario, una porta beffarda, c'era sempre qualcosa che cercava di colpirmi senza pietà. E spesso ci riuscivano, maledetti oggetti inanimati col vizio di mirare agli umani più alti di 1.80. Che poi mi chiedo: Sendoh come faceva a muoversi con quella classe pur essendo più o meno della mia altezza? Non c'era mai nulla nella sua traiettoria. Giusto un paio di avversari da infinocchiare prima di pigiarla in testa al Maki della situazione. Ma giusto loro.

Ok, Giappone. La prima parte era per specialisti. Agli altri cercherò di badare ora.
Viste in fila Hiroshima, Nagasaki. Son passati sessantacinque anni da quando han deciso di rimuoverle dalle carte geografiche. Il Giappone si stava per arrendere, lo sapevano tutti, pure giù a Washington. Han deciso comunque di rimuoverle. E adesso giri l'angolo del Parco della Memoria e ci trovi KFC: strano modo di far la pace.

A Yame (isola di Kyushu) sono uscito dalla stazione e c'erano un signore e una signora che mi guardavano inebetiti. Li conoscevo? Manco per idea, ma qualcuno dall'Italia aveva detto loro di venire a prendermi, portarmi a casa e trattarmi come un figlio. Adesso li chiamo oto-san e oka-san (papà e mamma) e loro ne sembrano contenti. Comunque il giorno che sono arrivato puzzavo come una capra e non avevo vestiti puliti da mettermi. Era tempo di fare un ciclo di lavatrice. Ho guardato nelle tasche dei jeans e non ci ho trovato niente. Io guardo sempre nelle tasche dei jeans prima di metterli a lavare, me l'ha insegnato mia nonna. Poi quando la lavatrice ha finito, ho tirato fuori i vestiti e c'erano centinaia di piccoli pezzi di carta sparsi sulle felpe e sulle magliette. Oto-san li guardava divertito. Kami, kami. Un sacco di carta. Ridevo anche io, chissà quale inutile bigliettino sarà rimasto dentro.
Tre giorni dopo alla stazione ho cercato il mio Rail Pass nello zaino e ci ho trovato dieci centimetri cubi di nulla. Spero che mia nonna non venga a saperlo.

I giardini di Okayama non ve li racconto nemmeno perché usare la mia volgare prosa per farlo sarebbe diffamatorio.
Il castello di Himeji invece non si offende. Va bene, ho sbagliato io ad andarci di domenica ma un'ora per prendere il biglietto e tre abbondanti per girare attorno al castello paiono esagerate anche a un tipo paziente come me. Segnalo comunque che i giapponesi si profondevano in cori di stupore ogni volta che la fila concedeva loro di avanzare un metro. Al terzo piano della torre principale ho detto basta. Continuate a stupirvi fino al quinto, ciao.

Che altro c'è. Kyoto, certo. Potrebbe tranquillamente essere la città più bella del mondo, però un giorno nevicava , un giorno diluviava e il giorno in mezzo ero depresso. Alla fine è solo la città più bella che ho visto negli ultimi quattro anni. Vancouver sei ancora mon amour.

E a chiudere Tokyo. Ci sono arrivato scarico e non è esattamente il posto ideale per farsi cogliere passivo dalla folla impazzita di Shibuya. Gente, gente, gente. Ce n'è talmente tanta che fai fatica a scorgere i grattacieli dietro i quintali di trucco delle ragazzine.
Tra le poche cose capitatemi in questo oceano di passività: l'hanami alla base americana. Hanami designa il picnic nipponico primaverile che si consuma tradizionalmente sotto i ciliegi in fiore. Base americana designa una base americana. Oltre ai soldati dentro ci sono le famiglie ciccione dei soldati, campi da golf, il venditore di hot dog e Subway. Torniamo ai ciliegi. Direte, maraviglia delle maraviglie. Va bene, piacciono anche a me, ma diamine quando ne vedi diecimila nell'arco di una settimana sembrano un po' meno speciali. Io preferisco i fiori del prugno.
Mia nonna mi dava sempre del Bastian contrario quand'ero bambino. Mi piace pensare che mi stesse facendo un complimento, e che lo sapesse.

22 marzo 2010

和菓子 is the way

Ho in saccoccia dieci giorni di Nihon. Non pesano nemmeno così tanto, certo meno del mio trolley che si riempie ogni giorno di regali e souvenir. Il peggio è quando salgo sul treno e devo issarlo fin lassù dove stanno tutte le valige. Talvolta nemmeno ce la faccio. Barcollo e per poco non finisce in testa a qualche minuta vecchietta giapponese. Gomenasai.

Dieci giorni di Nihon e non è che abbia visto poi molto. Li ho passati quasi tutti in campagna, dormendo sui futon e facendo colazione con zuppa di miso, riso bianco e natto (dei fagioli fermentati che la Lonely Planet definisce infamous). Roba buona. Anyway, mi pare tempo di rendicontare qualche esperienza occorsami fin qui. Andiamo per tappe.

Tsukuba e le zone circostanti (nord di Tokyo):
1)i flyer con le donnine nude per comprare i canali erotici alla tv dell'hotel e le bacchette a forma di spada laser al centro commerciale (quella verde di yoda vince su tutte);
2)un tizio che mi ha cucinato davanti agli occhi un okonomiyaki (sorta di frittata) grande quanto un trentatre giri con dentro, tra le altre cose, anche degli spaghetti. Ho delle foto che provano tutto ciò;
3)un Buddha alto tipo 100 metri che mi hanno spacciato per la più statua alta del mondo. Controllando su internet è venuto fuori che è solo la seconda più alta. La Statua della Libertà gli arriva al cavallo comunque.

The trip:
il giorno del mio compleanno devo andare col mio amico Taka a Mie, 500 chilometri a sud-ovest di Tsukuba. Road trip, partenza prevista per le 6 del mattino. Alle 2 bussano alla porta di camera mia. E' il mio amico: bisogna partire ora per evitare il traffico di Tokyo. Lo evitiamo con maestria. Poi al mio amico viene un colpo di sonno, dobbiamo fermarci. Dorme cinque ore filate nel parcheggio di un McDonald's mentre io sfrego le mani sull'accendisigari per dimenticarmi che ci sono 5 gradi e la mia giacca più pesante è spessa quanto un'alga nori. Ripartiamo e il navigatore segna il tempo rimanente: 12 ore. Chiedo come sia possibile tutto ciò. Mi risponde che se non si prende l'express way (troppo costosa) quello è il tempo che ci vuole per fare 500 chilometri. Presente viale Zara? Toglietegli due corsie e avete un'idea delle statali giapponesi. Siamo arrivati alle 10 di sera, sulle spalle un acquazzone, strade montuose, diversi caffé e té in lattina, una pausa pranzo a base di ramen e numerosi tentativi di espletare le mie funzioni biologiche. Tutti falliti. Ma almeno l'asse del cesso era sempre riscaldata.


Ever since:
1)ho scoperto che le carpe koi vengono in vari colori, tutti straordinariamente vividi. Direi che il mio prossimo tatuaggio ha già un design, gli manca solo un disegnatore;
2)wagashi, i dolci giapponesi. Non so voi, ma sapere che un dolce contiene riso e fagioli, e che è pure delizioso mi manda giù di testa. Ne mangio in tale quantità che sto cominciando a riconoscere i kanji quando li vedo scritti sulle etichette. Temo il diabete. Gente, i dolci giapponesi sono la retta via;
3)m'hanno portato a un corso di calligrafia e in due ore ho prodotto quello che un bambino di seconda elementare probabilmente giudicherebbe un colpo di daga alla propria carriera scolastica. Imbarazzante;
4)nota per tutti quelli che vogliono diventare dei ninja: preparatevi a indossare gilet che pesano più di vostra cugina, a dormire sempre sul fianco sinistro per proteggere il cuore da eventuali attacchi notturni e a mangiare cibo che non produca odore quando lo ridistribuite sulla madre terra. Oh, e un paio di porte girevoli nascoste per la casa son doverose;
5)nota per me: sfidare un nonno nippo a chi beve più sake non è mai una buona idea. Nemmeno se è lui che offre il sake,

Tre serate fantastiche:
1)la sessione di sake col vecchio di cui parlavo prima. Come aperitivo. Poi, cucinando della pasta per la famiglia di Taka, mi rimuovo mezza unghia e parte di indice mentre affetto la cipolla. Fermo l'emorragia e porto a termine l'impresa. Vengono invitati anche parenti e amici per la grande occasione. Tutti mi portano regali. Tutti mi dicono che la pasta è sugoi (deliziosa). A mezzanotte karaoke a cantare Barbie Girl, Avril Lavigne e Volare di Modugno;
2)la famiglia di Taka mi cucina una cena a sei portate, tutte contemporaneamente sulla tavola. Le stermino con ingordigia. Parte una seconda sessione col vecchio. Si uniscono nipoti, cugine, avventori a caso. Ingolliamo sake, umeshu (vino di prugna), soju (liquore di patata?). Ci sono snack di ogni sorta sul tavolo, metà dei quali sono fuori dalla mia comprensione. Finiamo a farci foto facendo il gesto della pace, rossi in faccia;
3)io e Taka ce ne andiamo a Osaka per far serata. Dopo la cena entriamo in un'izakaya, vedo piattini e bacchette. Non eravamo venuti qui per bere? Sì però i giapponesi amano buttarci un sacco di cibo su quell'alcol. Sostanzialmente è un'altra cena. Chiudiamo verso le 3 con sake caldo e ume ochazuke (riso immerso in tè verde bollente con alghe e prugna acida).




Volevo infine segnalare che il Giappone mi sta piacendo.

9 marzo 2010

It's my job to keep punk rock elite

8 = gli aerei che ho preso in quest'ultimo mese.

570 = gli euro che ho speso da quando sono atterrato a Singapore a quando ho preso l'aereo per Sydney.

162mila = le rupie che ho speso mediamente in un giorno d'Indonesia.

13 = l'equivalente in euro.

13 = i nuovi frutti che ho assaggiato (tra cui il re dei frutti: il durian).

3 = le ragazze che mi hanno chiesto se aveva Facebook.

2 = i tipi che mi hanno chiesto se ero single.

10+ = le volte che ho liquidato una tipa che voleva vendermi un massaggio.

100+ = le volte che ho liquidato una tipa che voleva vendermi una sarong.

1000+ = le volte che ho liquidato un tipo che voleva vendermi una corsa a cavallo, sul calesse, sul becak, in motorino, ojek, taxi o minibus.

6 = i bicchieri di vino di riso che posso reggere in una serata.

1 = il libro che ho scritto.

28 febbraio 2010

Ray Lew

Arrivi a Bali e non capisci cos'e'. Non e' Indonesia: troppo colorata la frutta, troppo bianca la pelle della gente. Non e' il villaggio turistico che cerca di essere. E basta mettere il naso fuori dalle quattro strade centrali per rendersene conto. Il puzzo di fogna e spazzatura arriva presto e non c'e' spezia che lo possa coprire. D'altronde se hai i consumi di un paese occidentale e un sistema di smaltimento rifiuti basato su vanghe e ceste di vimini il conto prima o poi lo devi pagare. E quasi sempre lo paghi nelle zone periferiche, dove gia' non e' che ti avessero servito un menu d'eccezione.

Eppure basta uscire un secondo dal circuito turistico e perdersi col motorino nella campagna a ovest dell'isola che i bambini ancora si stupiscono dei tuoi occhi azzurri e le ragazzine scappano imbarazzate e ghignanti appena dopo aver trovato il coraggio di salutarti.
Hello, hello, che candore, che armonia. Ora pero' magari ditemi come si esce da sto ammasso di sentieri, devo andare a Sanur. Sempre dritto. Due minuti e sono di nuovo fermo a chiedere indicazioni. Sanur? Sempre dritto, nell'altro senso. Tempo di fermarsi in un warung e ricaricare le pile. Forse li' sanno qualcosa di piu' su questa fantomatica Sanur. Chiedo. Conciliabolo tra cuochi, camerieri, buontemponi che passano li' le giornate e astanti dell'ultima ora. Chiamano un tizio direttamente dalla cucina, l'eletto. Lui mi spieghera' come arrivare a Sanur. Prende una pagina bianca dal menu e ci disegna sopra una mappa. Fa per darmela ma d'improvviso il suo autore gli disegna del terrore sul viso. Gira la pagina e ci trova i piatti del suo menu, l'unico di tutto il ristorante. Sorry, mister. Fa niente, buddy, si vede che Sanur non era destino.

Un po' rimpiango i primi giorni di Bali quando andavo in giro in bici. La pace, le risaie, il mio sudore sulla camicia a perta a mostrare del gran pelo occidentale. Poi ripenso a quelle quattro ore di salita per tornare a Ubud che ogni venditore di succhi di frutta sul ciglio della strada mi pareva il rifornimento al Tour. I bambini su bici piu' grandi di loro mi superavano senza pieta' e se la ghignavano. Quello con la maglia di Bobo Vieri per poco non mi dava il colpo di grazia. Ma arrivai.

No, meglio il motorino. Meglio fermarsi al baracchino che vende Bakso, zuppa di carne, per sapere se la si puo' avere senza la carne. Meglio rendersi conto che il tizio che te la sta vendendo non capisce nulla di quello che gli dici e vederlo chiamare un altro tizio per spiegarsi e scoprire che quell'altro tizio e' un poliziotto perche' sia tu che il baracchino ambulante della bakso vi siete fermati nella stazione di polizia. Che poi il poliziotto, dapprima esitante, e' anche un brav'uomo. Si scioglie dopo qualche minuto e lo scopri battutista da varieta' di prima serata sy canale5. Fa il burlone, e tu ancora non hai capito nulla di sta benedetta bakso. Alche' esasperato alzi il coperchio sulla pentola del baracchino e ci vedi del tofu. Tahu?
I due si guardano. Tahu, tahu, yes, mister, yes. Canticchiano sto motivetto, si baloccano, mentre tu ti godi la tua zuppa di noodle e tofu seduto sul marcipaiede.


In postilla:
- noleggio motorino = 50mila rupie.
- benza = 10mila rupie.
- bakso tahu o comunque si chiami cio' che ho mangiato = 3mila rupie.
- il sorriso del tipo che te l'ha venduta quando gli hai detto che era enak (deliziosa) = citofonate Mastercard.

16 febbraio 2010

Bromo

Sono in una stanza nel centro di Jakarta e vorrei chiamarla una topaia. Sono seduto sul pavimento e guardo le lenzuola. Scrivo che non riesco a dormire perche' gli insetti non me lo permettono. Li tengo lontani col ventilatore, ma il caldo e' opprimente e allora tengo il ventilatore per me e che gli insetti vengano pure. Intanto scrivo, magari il rumore della penna sulla carta li spaventa.

Sono su un treno, sette ore di treno che diventano otto. Fuori dal finestrin risaie e foresta pluviale. Le montagne sono coperte dalla nebbia. Piove sempre nel febbraio indonesiano. Continuo a scrivere perche' Jogyakarta si merita un sacco d'inchiostro. Ogni mattina alle 4 il muezzin comincia a cantare. Non mi da fastidio il volume e nemmeno l'ora, ma Allah avrebbe potuto dare un paio di toni in piu' a quella voce tanto sgraziata. Vorrei incontrarlo per strada quel tipo che canta. In fondo conosco la sua voce quasi meglio della mia in questi ultimi giorni. Gli direi: amico sei un gran musulmano ma, diamine, fai cantare qualcun altro.

Sono in una stanza con due letti rosa e penso a Dumbo. Giammai un elefante volar. In Indonesia pero' un tour in cui si vedono elefanti volare potrebbero provare a vendertelo. 60mila rupie. Troppo? Ok, facciamo 20mila. Mille. Venduto.
Sono nella mia stanza, scrivo. Il cesso non ha lo sciacquone. Riempio il secchio e butto l'acqua nel vaso. C'e' da sperare che non mi vengano mai gli stronzi duri, altrimenti hai un bel provare a mandarli via a secchiate.

Scrivo tanto, e quasi solo boiate. I fatti li lascio a chi non ha idee, di solito. Sento una chitarra, scendo nel vicolo. Ragazzi indonesiani accovacciati in un angolo suonano e bevono vino di riso. Me ne offrono. Where are you from? Italy. Football. Ac Milan o Inter Milan? Mi fingo esperto. Funziona solo perche' l'ultima partita che hanno visto dev'essere tpo di Francia '98.

Per giorni sento il motivetto usato in Giappone come campanella scolastica. Che sara' mai? Un portatile nella stanza accanto forse. Non me lo spiego. Poi vado in stazione qua vicino. Eccola di nuovo, e comprendo. Il capostazione la usa prima di dare ogni avviso. E a me sembra di tornare dentro Touch.

Vorrei dormire, ma scrivo. Non riesco a smettere. Mi sono alzato alle 4 per cogliere l'alba a Borobudur. C'era tanta di quella nebbia che il sole non si sapeva nemmeno da che parte stesse. Io continuavo a salire verso la cima del tempio e i vari livelli apparivano da dietro la nebbia. Prima erano nulla, poi li toccavi. Venti metri piu in basso la foresta ed io li' a cercare una frase per descriverlo sul mio quaderno, incapace di fare altro. E cosciente che non ci sono frasi o parole o niente che possa descriverlo.

Ho fame, metto via la penna e scendo in strada. Liquido i tizi che mi vogliono vendere la corsa. Cammino. Ma sei bianco, ricco, coi piedi di cristallo. Fa niente, cammino. Baracchini vendono cose di cui al 90% non conosco il nome. Che fare? Banane. Tutti le chiamano cosi', ovunque. Guardo la vecchina senza denti. Banana! Nulla. Prendo il casco in mano. Ah, pisang, pisang. Le voglio, voglio ste pisang, quanto? Diecimila rupie tutto il casco. Non me ne faccio niente di 15 banane. Mimo il gesto di spezzarlo in due. Lei si dispera e sembra dire: se strappi a meta' una banconota dopo i due pezzi non valgono la meta' dei quattrini. La guardo, mi guarda, la gente attorno a noi ci guarda. La vecchia tira fuori la mano e fa segno cinque. Stasera per cena banane, e un frasario di Bahasa Indonesia.

10 febbraio 2010

E poi c'era Amedeo

Sindapore mon amour:

- il Changi Airport dove ti danno le caramelline mentre controllano il passaporto e ci sono postazioni internet 5 metri prima del gate. Gratis;
- i cinesi, tanto pragmatici sul lavoro quanto pacchini e senza misura nei festeggiamenti;
- gli indiani, tanto scazzati sul lavoro quanto scazzati fuori (momenti non sempre facilmente distinguibili);
- il dragon fruit e le banane rosse;
- i miei piedi nudi sul pavimento dei templi hindu;
- i biglietti plastificati della metro, che per averli devi lasciare il deposito come coi carrelli dell'esselunga;
- gli stand di chinatown dove ti offrono croccanti, mochi, gelatine e frutta secca per il capodanno;
- un mezzo delfino e mezzo leone che sputa acqua davanti allo skyline;
- Auntie Aini che mi regala le sue tortine di arachidi perche' lei ha il colesterolo troppo alto.


Kuala mon amour:

- lo shuttle bus per l'aerioporto che arranca sui cavalcavia neanche fosse l'ivan quaranta di inizio stagione;
- andare alle petronas towers e scoprire che non puoi salire fino in cima e che a kuala c'e' un'altra torre di tipo 450 metri che invece puoi scalare interamente;
- salirci comunque perche' tanto e' gratis;
- il tizio che incrociandiomi per strada improvvisamente comincia a respirare male, estrae un ventolin vuotodalla tasca e mi chiede i soldi per comprarne uno nuovo;
- il bollitore dell'acqua con la modalita' boiling per il te' e quella warm (40celsius) per bere;
- lo star fruit che sa di mela verde e pompelmo;
- il tofu in pastella e il peperone ripieno di soia del blue boy vegetarian restaurant. E scoprire poi che e' un peperoncino. Che brucia come fare i gargarismi con la grappa.

6 febbraio 2010

Aspetta foglie rosse, Bandini

Otto giorni di Sydney che sono cominciati come un piatto di pasta riscaldato al microonde. Tiepidi, vagamente anonimi. La sensazione che c'era di meglio a disposizione se solo la pigrizia non mi avesse assalito. Ho fatto fatica a riabituarmi alla gente di corsa per strada, a quel cielo fuggiasco che ti piove addosso quando sei in giro col tuo trolley da 25kg.
Fai fatica a dimenticarti di come ti sveglia l'oceano quando ti ci butti dentro alle otto di mattina e non hai nemmeno il tempo di dirgli buongiorno.

Otto giorni di Sydney che pero' pian piano hanno acquisito un senso, perche' ho rivisto il sorriso di un amico, e poi sono diventati due, tre. E poi ho smesso di contarli. Se ti circondi di sorrisi puoi entirti a casa un po' ovunque, nonostante tutto. Una casa credo di non averla trovata mai. Le cose mi appartengono, magari per brevi periodi, sono io che non appartengo a loro, oppure semplicemente faccio di tutto per dimostrare a me stesso che e' cosi'.

Ho lasciato Sydney come due mesi fa, sapendo che ci tornero'. Sa sempre meno di addio. Sull'aereo per Singapore mi sono guardato intorno e ho visto facce di tutte le sfumature, alcune sorridenti, altre grige, tutte con quel piccolo particolare che farebbe sorridere l'osservatore piu' attento.
Mi sono messo a leggere Chiedi alla polvere di John Fante. C'e' questo tipo che vorrebbe scrivere racconti ma proprio non ci riesce, e la cosa mi ha ricordato quando da ragazzino volevo fare lo scrittore. Mi e' improvvisamente venuta una voglia disperata di scrivere un libro. Ho un quaderno e una penna ma me li ero dimenticati nella pancia dell'aereo e le mie idee erano tanto bislacche che avevo paura di perderle. Cosi' ho continuato a ripetermele in testa per tutto il volo, a costruire immagini che resistessero al nuovo fuso orario.
Sto riaprendo un capitolo che avevo sigillato, sto riaprendo me stesso a tutti voi, nell'unico modo in cui sono sempre stato capace di farlo.

Vi guardo da dietro un vetro, come facevo anni fa, afono. E aspetto le foglie rosse. Voi ballate sotto la neve, e io aspetto le foglie rosse dell'autunno.

23 gennaio 2010

Back home?

Ho perso un po' il filo del discorso da quanto ho lasciato Coffs Harbour. E me ne scuso.
Ho visto Yamba, un paesino affacciato sull'oceano, dove ci sono più onde che abitanti e dove il surf è quasi una religione. Ho usato una tavola da 8'6, lunghissima rispetto a quello cui ero abituato, e ho avuto qualche problema di adattamento. Ma è stata comunque un'esperienza immensa (quasi quanto le onde, mai viste così).
Poi ho avuto una conferma: appena esci dalla metropoli gli australiani diventano un popolo disponibile al limite dell'assurdo. Ho fatto l'autostop un paio di volte e sono stato caricato addirittura da una vecchine di almeno 70 anni, felicissima perché ha potuto raccontarmi delle sue vacanze romane nel lontano '56.
E ogni volta che incroci qualcuno per strada esce automatico il g'day (good day, tipico saluto australiano) o l'hey u goin? (hey, how are you going?). Non so quanto sia rituale e quanto invece ci sia dell'interesse dietro tutto questo, ma non è raro rimanere intrappolati in conversazioni improbabili mentre si va in spiaggia a surfare.

Dopo qualche giorno mi sono spostato a Byron Bay, un tempo piccolo centro della controcultura anni '70, luogo di hippies e surfisti, amanti della natura e contadini biologici. Oggi tutto questo è stato rivenduto al mercato del turismo. Ovunque spuntano negozietti che vendono didjeridoo, incensi, souvenir improponibili, occhiali da sole pacchiani, cappellini, oltre a una pletora di fast-food salutisti, rivenditori di succhi di frutta, panetterie e addirittura posti che vendono ganja.
Non è l'Austrlia di Sydney, caotica e centrata sul business, ma non assomiglia nemmeno all'Australia che ho visto durante il mio viaggio nell'ultimo mese e mezzo. Qui la gente non ti saluta se la guardi negli occhi. E ci sono in giro più backpackers che abitanti del luogo, cosa che mi lascia sempre un po' perplesso, specie se quei backpackers sono gli stessi che alle 4 di notte rientrano dalla serata di bagordi e si mettono a starnazzare in una camera buia, dove almeno altre 6 persone stanno cercando di dormire. Ieri una tipa ha avuto un'idea sconcertante: fare una foto ad ognuno degli altri letti presenti nella stanza, dormiente incluso. Io che non dormivo le ho palesato il mio dito medio sperando di convincerla a desistere. La cosa ha invece suscitato una sua risata equina, subito emulata dall'amica. Mi sono consolato pensando ai terribili postumi che l'avrebbero colpita il mattino seguente.

Tra poco torno a Sydney, che qualche volta ho chiamato anche casa. Ma fatico ad associare all'idea di casa un posto che non sia la mia stanza di quand'ero bambino. Oggi avrei bisogno di un po' di sole, in questo cielo disperatamente terso. Ci vorrebbero maglioni e una canzone dei Radiohead, e sui tuoi capelli la luce di quel sole invernale che ho quasi dimenticato.

7 gennaio 2010

Point Break

Piove. Sono le sei e mezza del mattino e piove sottile, quasi abrasiva. E dire che ero venuto qui per rincorrere il sole.
Spremo un'arancia e ci butto sopra un po' di muesli. Un pugno, due pugni, facciamo un etto che sennò dopo svengo in acqua. Mangio fuori, vicino alla piscina, sui tavoli di legno. Meglio abituarsi subito all'acqua che ti batte sul viso, alla brezza da ponente che gonfia l'oceano.
Mi metto il costume, il cappuccio della felpa in testa, un asciugamano e una banana nello zaino. La tavola mi batte già sulle costole mentre cammino verso la spiaggia. Sono le sue costole ormai, il suo petto, le sue ginocchia e le reclama ogni volta che mi avvicino all'oceano. Lo capisco mentre attraverso il fiume che oggi la marea è alta, perché corre all'indietro e spinge la sabbia sempre più a fondo.
Poi si apre la scena e ho centottanta gradi di onnipotenza davanti ai miei occhi. Qualcuno è già in acqua, paziente. La prossima onda sarà migliore. Non si surfa contro l'oceano. Si surfa su sua concessione dopo averlo accarezzato, sedotto.
Metto la rashie, una magliettina di licra che mi protegge dal freddo. I capelli sono già bagnati per le gocce che mi cadono in testa da mezzora. Non trovo una ragione valida per lasciare il resto del corpo asciutto a contemplare lo spettacolo. Mi corico sulla tavola e le sussurro che stavolta cercherò di proteggerla, di non abbandonarla ad ogni onda un pochino più potente. Sono le ultime parole dolci, poi verranno solo imprecazioni. Nuoto, con tutta la mia forza, contro quelli che mio nonno chiamava cavalloni. Non andare in acqua che ci sono i cavalloni. Scusa, nonno, ma non ho mai resistito alle dimostrazioni di onnipotenza. Preferisco buttarmici dentro che stare a guardare. Nuoto, mentre la schiuma mi ributta indietro e bevo l'acqua bianca. Cado, mi rimetto sulla tavola e vedo l'onda successiva che si rompe proprio sopra di me. Succede sempre. Io nuoto, e loro mi ributtano indietro.

Io non so prendere le onde, non ancora. Ma penso di aver capito cosa vuol dire surfare. Lo vedo negli occhi degli altri surfisti quando arrivo nella line up e mi siedo ad aspettare l'onda buona, dieci minuti dopo aver lasciato la riva, già esausto. Perché anche nei loro occhi, sotto una pioggia che non smetterà mai, vedo quello che c'è nei miei. La consapevolezza. Sanno che non c'è niente di più bello al mondo di un mare cupo che sfuma verso l'alto, si confonde, e diventa tutt'uno col cielo in tempesta, là dove le nuvole si fanno acqua. E' il nostro orizzonte. Lo vediamo così perché abbiamo l'acqua nello sguardo. Quella dell'oceano o quella della pioggia, non lo so. Ma stare lì seduto, col frastuono delle onde che si rompono da un lato, e il frinire incessante di migliaia di cicale dall'altro, è quello che io chiamo pace.